L’orgoglio (che traspare dal comunicato comunale) di aver indotto il ministro della difesa a scendere a Modena per firmare il protocollo di intesa, preparato dalla agenzia del demanio, ha fatto dimenticare che l’amministrazione comunale nella sua responsabilità di governo democratico della città aveva precocemente considerato l’esaurimento della funzione militare del vasto insediamento che fu l’VIII Campale; e nel piano regolatore – PSC aveva voluto mantenere la destinazione pubblica di quelle aree, come “parte del patrimonio delle aree pubbliche” riservate all’insediamento di “servizi di interesse collettivo” per soddisfare i bisogni della città anche di domani. Sorprende la disinvoltura del mutato consiglio, per accedere alla misura inventata da un cinico legislatore preoccupato di sciogliere i beni del demanio statale in liquidazione dalle vincolanti prescrizioni dei piani regolatori comunali (è l’art. 26 del famigerato “sblocca Italia” di settembre – novembre 2014). Acquisire cioè il consenso dei comuni assicurando loro la provvigione del quindici per cento sul prezzo ottenuto dalla vendita dell’immobile rivalutato dalla destinazione più remunerativa secondo la domanda del mercato, attraverso “l’ottimale variazione agli strumenti di pianificazione”. Il nostro Comune accede dunque (volontariamente, non è certo obbligato) alla valorizzazione – privatizzazione di quelle aree per prendere la sua parte di lucro, modesta per la verità. E per nobilitare l’operazione il sindaco immagina di ricorrere attraverso un concorso internazionale alla sapienza d’oltre confine e così progettare l’alternativa privatistica.
Nel registrare con soddisfazione l’avvio del protocollo di intesa nessuno che abbia ricordato (inconsapevole deve credersi anche chi l’ha siglato per la Comunità modenese) come quella vasta area fosse stata acquisita alla proprietà del Comune che alla fine del primo decennio del Novecento l’aveva a proprie spese espropriata dalla genovese opera pia Rainusso e l’aveva ceduta gratuitamente al ministero (allora) della guerra per “l’impianto nella città di un reggimento di artiglieria pesante” e anzi aveva sempre a proprie spese provveduto alle prime opere di accasermamento (lire trecentomila di allora). Certamente, esaurita dopo un secolo la funzione, nessun titolo formale può vantare il Comune per ottenere la retrocessione dell’area, ma dalla doverosa consapevolezza della speciale vicenda urbana chi oggi governa la città avrebbe dovuto trarre un più fermo – e, aggiungiamo, più dignitoso – orientamento nei rapporti con ministero della difesa e agenzia del demanio, preoccupati soltanto, come qualsiasi immobiliarista privato, di ricavare il più alto corrispettivo dalla liquidazione. Per verificare se alle necessità dei presìdi militari a Modena ben si possa provvedere altrimenti dalla “ottimale variazione agli strumenti di pianificazione” sulle aree del dismesso VIII Campale (sottratte ai servizi di interesse collettivo dei modenesi), attraverso cioè un apposito stanziamento nel bilancio del ministero deputato (che per la spesa giornaliera della “difesa” eroga, come più fonti di stampa hanno registrato, ben sessanta – ottanta milioni di euro). Mentre neppure può dirsi assurdo il riconoscimento dell’interesse storico di quelle aree nella vicenda della prima espansione urbana oltre le mura e per l’insediamento ormai centenario di un reggimento di artiglieria con le sue tipiche attrezzature di impianto, una caratterizzazione incisiva di una rilevante parte della città che andrebbe irrimediabilmente perduta con la privatizzazione dettata soltanto dalla valorizzazione immobiliare.
Modena, 6 dicembre 2016