Credo che sia chiara a tutti la speciale ragione per cui l’affetto, la stima, la riconoscenza, il rimpianto di famigliari, amici, cittadini modenesi per Franca Stagi sono oggi manifestati in questa chiesa. Laica, Franca aveva espresso il desiderio che se famigliari e amici avessero voluto ricordarla pubblicamente, quel saluto le fosse dato nella chiesa di San Carlo da lei restaurata, anche in funzione di auditorium, parte integrante del complesso del Collegio sempre da lei curato in tutte le fondamentali strutture nell’arco ormai di oltre trent’anni. A cominciare dal progetto di restauro del convitto e dei centri culturali, studiato con Cesare Leonardi (con il quale il Collegio si adeguava funzionalmente alla nuova vocazione di istituto di alta cultura, così interrotta la lunga tradizione di istituzione scolastica). Per poi misurarsi con i temi del restauro della chiesa, del teatro, della cappella del collegio, dei corridoi d’onore, dello scalone, del Portico del Collegio.
Franca ha affrontato la malattia, manifestata quasi quattro anni fa nella sua invincibile gravità, in piena consapevolezza e con il coraggio di cui la sapevamo capace. Seguita ogni giorno con dissimulata apprensione dalla attenta amorevole solidarietà di Mariella (che con generosa abnegazione ha saputo garantirle la normalità delle condizioni di vita), di Paolo e Stefano (fortissimo il legame affettivo tra i fratelli) e sotto la quotidiana, sollecita e affettuosa cura medica della nipote Marina. Mentre sempre accompagnava Franca, vivo e profondo, il dolore per la perdita del compagno di una vita, il marito senatore Arrigo Morandi.
La malattia è stata vissuta da Franca in questi anni come una stagione speciale, nuova e difficile, della sua esistenza, che non poteva esonerare dagli impegni professionali, potuti adempiere con ritmo vicino a quello di sempre per la dedizione intelligente di Cristina Fontana la collaboratrice di studio. La malattia, che non poteva interferire nella cura dei suoi interessi culturali (ora è un mese, Franca era a Roma –Mariella al suo fianco- per l’irrinunciabile visita alla mostra del Bellini alle Scuderie del Quirinale), né attenuare l’intensità delle relazioni pubbliche e la frequentazione degli amici; che non poteva sollevarla dalle responsabilità che aveva assunto verso la città con gli studi dedicati alla complessa fabbrica del Grande Albergo delle Arti, la intenzionale sede comune delle istituzioni culturali e museali civiche e statali, dimostrando la praticabilità della più appropriata espansione di tutte entro gli spazi lasciati liberi dal trasferimento dell’Ospedale Estense, adeguati e sufficienti a soddisfare le esigenze così della Galleria come della Biblioteca estensi. E quindi avvertì il dovere di motivare pubblicamente le ragioni che si oppongono al trasferimento della Biblioteca Estense nell’edificio dell’ex Ospedale Sant’Agostino, inidoneo in ogni caso se correttamente restaurato (come indicavano i suoi studi anche di questa singolare struttura architettonica della riforma del settecento estense) a ricevere quella nuova funzione. Non volle neppure interrompere la milizia attiva nella associazione Italia Nostra, alla quale, proprio in quest’ultimo anno propose ed avviò ad attuazione una iniziativa di massimo impegno: la ricognizione aerea a volo radente, da lei stessa programmata con l’indicazione degli specifici luoghi, della più recente espansione della città, che registra la immagine disordinata e sfrangiata (con il taglio violento dell’alta velocità a nord a suo tempo da lei contrastato) dell’insediamento urbano. Nel proposito di ricavare le possibili linee di un indispensabile misura che salvi da ulteriore consumo le residue aree di verde agricolo o comunque inedificate, per ritrovare una nuova riconoscibile forma urbana. Ormai non più praticabile la soluzione che proprio Franca aveva proposto negli anni ottanta del 900, affidare a una struttura di verde continuo la funzione di contenimento entro la insuperabile circonvallazione esterna.
A me pare che dia il senso di come la giovane Stagi si apprestava ad affrontare la professione di architetto il suo primo intervento pubblico. Appena laureata, siamo nel 1962 e siamo in pochi a poterlo ricordare, in una affollata “sala della cultura”, quella stessa che poi, professionista matura, incaricata del restauro di quella porzione del palazzo dei musei, si determinò a sopprimere per ripristinare lo spazio di un cortile interno, su due lati contornato da un porticato di cui si era perduto perfino il ricordo. Ebbene in quella sala si discuteva del destino della Piazza grande, e della edificazione, nell’area del demolito Palazzo di giustizia, della nuova sede di un istituto bancario cittadino. Ai discordi pareri sul progetto di Gio Ponti, la Stagi oppose, unica in quella discussione, una obbiezione di principio, cui nessuno aveva pensato. Non c’era possibile soluzione, perché l’errore era in radice inemendabile, Piazza grande non si poteva toccare e delitto sarebbe stato, disse proprio così, consentire al nuovo edificio di avanzare ben undici metri con il suo fronte entro la piazza (come poi è avvenuto) e le stesse cose pressappoco disse Renato Bonelli qualche tempo dopo sul Mondo di Pannunzio.
In quell’intervento alla sala della cultura c’è già la matura coscienza della città. E di lì muove l’impegno professionale che svilupperà con straordinario rigore e coerenza negli oltre quattro decenni successivi praticando l’architettura, già è stato detto, come missione civile. L’anima di Modena, la sua identità, sta nel suo insediamento storico per il quale si pone l’esigenza di un sapiente restauro delle strutture urbane e delle architetture nelle quali la comunità ha insediato funzioni pubbliche, innanzitutto quelle culturali con le istituzioni museali, le biblioteche, gli archivi, il teatro, l’università. E ad esse la Franca si è dedicata con lo studio e il progetto di recupero del Grande Albergo delle Arti per una unitaria destinazione alle istituzioni culturali, confermando nel loro storico insediamento e nell’originario allestimento gli ottocenteschi musei civici vitalizzati da un rigoroso restauro che non si esibisce, ma si intuisce impegnativo, secondo criteri condivisi con la direzione committente (un risultato lodato da osservatori critici esigenti come Paolucci, Bonsanti, Mottola Molfino). Ha restituito gli autentici colori a interni ed esterni del Teatro Comunale, sapendo intendere e perciò rispettando i caratteri del teatro di tradizione. Ha fatto riemergere da una lunga stagione di alterazioni fisiche e destinazioni improprie la spazialità monumentale del Foro Boario, riuscendo nel difficile compito di non mortificarla con i necessari adeguamenti funzionali alla funzione di sede degli studi universitari. Ancora di recente e quando già doveva combattere la malattia ha saputo rendere compatibile con il rispetto delle autentiche strutture la conversione dell’edificio exconventuale del San Geminiano alle esigenze funzionali della facoltà di giurisprudenza. E se si considera che a Franca si deve il recupero, anche del contiguo San Paolo, il primo intervento conservativo del Baluardo della Cittadella, il restauro del Tempio israelitico, si debbono riconoscere appropriate le espressioni con le quali la stampa di ieri ha presentato il ruolo dell’architetto della storia che con i più importanti restauri ha cambiato il volto della città. Nel senso che ha restituito il volto più autentico fatto riemergere da alterazioni, utilizzazioni improprie, disattenzione, trascuratezza manutentiva.
Ma la cifra del restauro non esaurisce la complessa e aggiornatissima cultura di Franca (ricordiamo il suo interesse per il design e le prove di alta qualità che ha dato al riguardo). Restituendo il passato alla città di oggi ne avverte le esigenze di nuovi e moderni servizi, le attrezzature sportive (i centri nuoto di Vignola e Mirandola disegnati con Cesare Leonardi), scolastiche (il nido e scuola d’infanzia Sandra Forghieri a Modena) e valorizza la funzione del verde (i parchi urbani) come struttura portante dei tessuti insediativi, capace di riscattare i più recenti informi ingrandimenti dalla condizione di periferia (raffinatissimi ed originali gli studi sul verde compiuti ancora con Leonardi per il premiato progetto del Parco della Resistenza, che trovano compiuta espressione nel volume L’architettura degli alberi edito da Mazzotta nel 1982). Nella lucida consapevolezza che restauro del centro storico e promozione della qualità urbana nelle espansioni novecentesche sono operazioni complementari, pur se diverse nel metodo. Né Franca condivide “la cultura del progetto”, convinta che anche la più alta qualità formale dell’architettura necessita del vincolante riferimento a un saldo disegno urbanistico per una unitaria idea di città. E Franca è stata anche urbanista in senso proprio con due esemplari piani regolatori. Quelli di Castelfranco Emilia e Castelvetro, travolti poi entrambi dalla consueta sequenza di libere varianti. Castelfranco, disegnato dentro una contenuta misura sotto il segno incisivo del suo Forte Urbano, protetto da un ampio alone di rispetto per recuperare la trama dei bastioni a raggera, tagliati a nord dalla linea ferroviaria e a sud dal percorso della via Emilia così ripristinato da Napoleone. Castelvetro, posto dentro la protezione del suo mirabile paesaggio collinare, la Valle del Guerro, intangibile. Sicché quando oggi ci dobbiamo misurare con inconsulti interventi urbanistico-edilizi così a Castelfranco come a Castelvetro constatiamo innanzitutto che il piano della Stagi non li avrebbe consentiti.
Aveva nei mesi scorsi intensamente lavorato insieme a Patrizia Curti alla doverosa pubblicazione che nell’ambito delle manifestazioni del quarantesimo della Facoltà di economia dà conto dell’originale insediamento di questi studi universitari entro il monumentale Foro boario. Il Grande porticato di piazza d’armi riscattato da una condizione d’uso degradante con la nuova funzione, attraverso il progetto di Franca, appunto. Tema di restauro arduo, risolto attraverso soluzioni (l’inserto di strutture a soppalco) che salvano anzi valorizzano la spazialità monumentale e realizzano sapientemente le esigenze funzionali di una facoltà universitaria. Il volume era pronto (la Curti ha steso la storia dell’edificio condotta anche su documenti inediti) per i tipi di Panini e ne era programmata la presentazione pubblica, per il prossimo 18 dicembre. Voleva essere ristabilita per quel giorno e lo aveva chiesto ai medici quando ha deciso di farsi ricoverare. Ma non è bastata la sua fermissima volontà di prevalere sulla malattia, che le ha negato (e ha reso a noi tutti più crudo il dolore) di presentare al pubblico con ben fondato orgoglio il felice collaudo di ormai quattordici anni di uso universitario del Grande porticato di piazza d’armi.
Giovanni Losavio.