Tomaso Montanari
Il segreto del successo alluvionale dell’omelia inaugurale del pontificato del Mattarella papa-re sta nell’abilità con cui si tengono insieme i contrari, secondo il collaudato sistema del “ma anche”. Prendiamo il passo in cui dice che “la cultura non è il superfluo: è un elemento costitutivo dell’identità italiana. Facciamo in modo che questo patrimonio di ingegno e di realizzazioni – da preservare e sostenere – divenga ancor più una risorsa capace di generare conoscenza, accrescimento morale e un fattore di sviluppo economico”.
Bene, bravo, tris. Ma possono applaudire sia coloro che pensano, secondo Costituzione, alla persona umana, sia coloro che pensano, secondo il dogma liberista, alla messa a reddito con dividendi per pochi. Certo, un altro passaggio del discorso papal-presidenziale sembra non lasciare dubbi sulla declinazione economicistica del ragionamento, auspicando “un’Italia che tragga vantaggio dalla valorizzazione delle sue bellezze”. Già, ma quale vantaggio, e per chi? Parafrasando Danilo Dolci, il problema non è valorizzazione sì o valorizzazione no, ma quale valorizzazione e chi si prende i soldi.
Scendiamo nel concreto: Modena, la Caserma Manfredo Fanti. Non è un “casermone” qualunque: si tratta dell’edificio neoclassico che, durante la Restaurazione, gli Este (tornati al potere, dopo la ventata rivoluzionaria e napoleonica, come Austroestensi) costruirono per collocarvi (esattamente nel 1823) lo Stabilimento dei Pionieri, una scuola militare che formava a molte arti diverse, con il Convitto dei cadetti matematici: di fatto un precoce moderno politecnico, una facoltà universitaria di ingegneria edile, tra le primissime in Italia. Poi, in epoca post-unitaria, il complesso diventa una caserma, conservando fino ai nostri tempi la funzione militare (caso rarissimo di una continuità di tale funzione da un antico stato italiano all’oggi della Repubblica).
Nel 1998 il demanio militare se ne disfa, aprendo il problema della sua destinazione: un gigantesco bivio, che riguarda centinaia di analoghi edifici (certo di rado così pregiati) in tutta Italia (si pensi al caso clamoroso della caserma, e prima convento, di Costa San Giorgio a Firenze). Da una parte la conservazione della proprietà pubblica, e anzi il trasferimento da un uso pubblico mediato e limitato dalla delicata funzione militare a un pieno godimento universale raggiungibile attraverso una destinazione culturale o sociale. Mercato o società, reddito monetario o inclusione e coesione? È questo il dilemma.
Subito, per la Fanti, si affaccia l’ombra della privatizzazione: ma amministrazioni ancora memori del bene comune la sventano, e alla fine l’edificio viene acquisito dalla Provincia. Ma quando la politica della propaganda (la stessa che lavora per l’autonomia differenziata delle regioni ricche) volle abolire le province (lasciandone in piedi solo il sistema di potere), nessuno pensò più a quel bel palazzo neoclassico, come a migliaia di altri beni culturali provinciali lasciati allo sbando in tutta Italia.
Ed eccoci all’oggi: quale il vantaggio che si vuol trarre dalla valorizzazione della Fanti? Beh, quello dei ricchi signori che potranno aggiudicarsi i trentadue appartamenti di lusso in cui sarà frazionato il monumento (potere dei numeri: come i trentadue castelli del “povero re” della canzone di Dario Fo e Enzo Jannacci).
Italia Nostra di Modena (guidata da Giovanni Lo Savio, già presidente di sezione della Cassazione) denuncia un “progetto che frammenta gli spazi interni e ne stravolge la organizzazione per ampie camerate nella tipologia dettata dalla speciale e unitaria funzione storica, e perfino apre in un prospetto esterno i varchi di accesso ai garage di servizio. È palese la violazione delle vincolanti misure conservative del codice dei beni culturali che per i beni tutelati prescrive manutenzione e restauro (art.29), mentre i modi del restauro come tipico intervento edilizio sono regolati dal testo unico dell’edilizia nella definizione del suo art.3 (che esige il rispetto degli elementi tipologici, formali e strutturali dell’organismo edilizio). E violazione pure della vigente disciplina comunale di piano regolatore che registra nelle sue tavole la Caserma Fanti come edificio di riconosciuto interesse culturale e la assegna alla categoria di intervento per restauro scientifico con rigorose prescrizioni di rispetto non solo dei prospetti interni ed esterni, ma pure dell’impianto distributivo-organizzativo originale. Un progetto, insomma, che portato a esecuzione costituirebbe uno sfrontato abuso edilizio, tanto più grave perché consumato su un edificio di riconosciuto interesse culturale, perfino abilitato dalla autorizzazione della Soprintendenza (quindi partecipe dell’abuso), se tollerato infine dalla Amministrazione comunale”.
Nell’Italia del presidente santo vivo c’è ancora qualcuno che ragiona secondo Costituzione. Mai come oggi, si direbbe, è necessario scherzare coi santi, e lasciar stare la Fanti.