Promemoria su un’opera di Parmiggiani.
Mi resta sempre vivida l’impressione della prima volta che vidi quest’opera di Claudio Parmiggiani, e questa sensazione io la collegai immediatamente con il cortocircuito tra la bustina usata di fulminanti da cucina Minerva e la veduta da San Giorgio di Piazza San Marco cui la bustina allude. Un cortocircuito irreale doppiato dalla possibilità di leggere il frammento consunto come prospettiva veneziana: disposizione di schegge di legno che illusoriamente “fanno vedere” la sproporzione tra l’altezza del campanile (rappresentato dall’ultimo fulminante rimasto) e quella delle case e palazzi che si affacciano a pelo sull’acqua (simboleggiati dai residui lignei di tutti i fulminanti strappati): un peso oggettuale che è bilanciato dal volo dell’immaginazione.
Qui si insinuano il titolo e la dedica che recitano:
“progetto per l’incendio del secondo campanile. paesaggio veneziano per Mauro Canale(tto)”.
Il progetto per l’incendio del secondo campanile è spiegabile attraverso la storia travagliata di questa architettura, più volte lesionata da terremoti (l’ultima, circa un secolo fa, ne determinò il collasso totale), o parzialmente danneggiata da fulmini, con un passaggio istantaneo dai fulmini della storia ai fulminanti dell’opera. Segue la dedica, in cui, al nome dell’omaggiato, Mauro Canale, fa seguito una parentesi (tto) che collega Canale a Canaletto, il maggiore e più fedele ritrattista di vedute veneziane. Così, con un richiamo dotto e un calembour immaginifico, tutto sembra concludersi in bellezza. E invece no, troppo bello, troppo comodo. Perché l’ironia che permea tutta l’opera di Parmiggiani è autoironia, rivolta non solo contro di sé e contro lo sconcertante della cultura di massa, ma ha nel mirino anche quella cultura della grande tradizione di cui non rimangono che i frantumi. Non c’è nostalgia nei suoi lavori, e nemmeno rimpianto per quelle presenze antiche, ma assolutamente contemporanee, che popolano le sue opere, da cui spira un vento freddo, di distacco. Tutta la sua produzione è caratterizzata dalla necessità di portare la storia delle immagini, i loro frammenti, schegge o pezzi, a un livello tale di corruzione da fare scattare l’ala dell’immaginazione nel punto più ampio di libertà: la parodia di noi, prigionieri del nostro peso (spazio e tempo terrestri), per essere sospesi in quella sfera della contemporaneità dove passato, presente e futuro stanno insieme in una ragnatela in cui il fuori corrisponde al dentro. Se l’opera è torso, runa, quale esito, quale via di scampo, quale finale, ammesso che ci sia una fine. E all’opera quale destino è assegnato. Probabilmente quello di custodire l’immaginario come deposito universale di tutto ciò che l’umanità ha prodotto, produce e produrrà nella dimensione visiva. Il particolare di un’immagine che cattura e sorprende mette in moto una catena di stimoli non soltanto in ambito visivo, ma che riguardano storie infinite. L’accenno al frammento indifferenziato, come le scritture non significanti di “Deiscrizione” e di “Papiro analfabetico” a cosa aspirano se non ad una condizione dei segni prima del linguaggio, dove alla dimensione umana non è dato diritto di cittadinanza. Non è che a questo punto giungono puntuali le parole pronunciate da Adriano Spatola, sull’onda di Musil, “la scoperta di un’insufficienza, di una carenza, di un disordine; un senso di vuoto che rimanda a qualcosa che non appena definito si rivela un nonsense, un giuoco di parole”?
Modena, aprile 2023.
Mario Bertoni.