Ai centri storici negata la tutela.
In principio era ed è la Carta di Gubbio. Un riferimento non di rito, lo leggiamo in ogni discorso che oggi affronti, e sono trascorsi più di sessant’anni, il tema dei centri storici. Non è un tema esaurito, ancora si impone agli interessi di cultura e di studio, alla responsabilità politica di amministratori pubblici e del legislatore, all’impegno infine di partecipazione dei cittadini, perché è tema proprio del diritto alla città. E dà motivo a questo nostro incontro. Fu la Carta di Gubbio la mozione conclusiva di un singolare convegno promosso da otto comuni ma vi aderirono molti altri, più di cinquanta (spettano ai Comuni, loro attribuzione primaria, l’esercizio delle funzioni che riguardano assetto e utilizzazione del territorio). Sono dunque i Comuni che danno in proprio avvio alla vicenda della tutela dei centri storici. E chiamano ad argomentare la salvaguardia dell’antico nucleo urbano, necessaria alla città moderna, un insigne studioso Giovanni Astengo, con le ragioni della più avvertita cultura urbanistica. Risanamento conservativo dei centri storici come necessaria premessa e condizione del nuovo ordinamento della città moderna e del suo coerente sviluppo.
È comune il convincimento che la Carta di Gubbio fondi il riconoscimento del centro storico come unitario bene culturale in sé, un unico monumento urbano da trattare quindi con le strategie del restauro adattate si intende alle specialissime caratteristiche di un complesso, composito organismo funzionale ai modi dell’abitare di oggi. Ma a ben vedere questo ideale sviluppo non sta in quel testo, dichiarata espressione di una cultura che ha coscienza della propria autonomia disciplinare – di orgoglio urbanistico si è parlato-, fermo il convincimento che nelle discipline della pianificazione territoriale trovi esauriente soddisfazione la istanza di tutela del centro storico come riconosciuta parte speciale dell’insediamento urbano.
La rivendicazione della Carta di Gubbio (urgente il codice dell’urbanistica con il caposaldo del risanamento conservativo dei centri storici attraverso dedicati piani comunali particolareggiati, sezione speciale dei piani regolatori generali) era stata pressoché immediatamente, due anni dopo, accolta nel disegno di una moderna e avanzata legge urbanistica. Un azzardo, anche per quella nuova stagione politica (il primo centrosinistra), il disegno di legge proposto dal ministro dei lavori pubblici Fiorentino Sullo (presidente del consiglio Fanfani). La legge che valorizza il ruolo della urbanistica nella identificazione e nella salvaguardia delle testimonianze di cultura riconosciute nel territorio, indica perciò come contenuto essenziale dei piani regolatori generali i vincoli da osservare nelle zone a carattere storico ambientale e paesistico e dedica un suo capo ai centri storico- artistici e ambientali e ai piani particolareggiati di risanamento, come voleva la Carta di Gubbio, da attuare per comparti obbligatori. Il progetto che Sullo aveva illustrato in un parlamento riluttante, neppure fu portato da Fanfani in consiglio dei ministri (sembra che vi si sia opposto Moro) e il naufragio della legge con l’esproprio generalizzato delle aree di nuova urbanizzazione per la formazione del relativo demanio comunale e il diritto di superficie (attentato si disse alla privata proprietà della casa) travolse anche personalmente il suo autore, costretto ad abbandonare precipitosamente la vita politica, inseguito da una insinuazione allora infamante. Con il disegno di legge Sullo cadde insieme il progetto nazionale di risanamento conservativo dei centri storici motivato dalla Carta di Gubbio. Che continuano a rimanere privi di tutela in alcuna dedicata previsione normativa, campo aperto, come si dovette constatare, a vistose manomissioni.
Irrilevanti anche gli esiti della pur diligente e operosa Commissione interparlamentare di indagine per la tutela e la valorizzazione di patrimonio e paesaggio (1964-1966) presieduta con passione dal senatore Francesco Franceschini (nessun merito gli fu riconosciuto e non fu rieletto), la Commissione come si sa inciampò sulla infelice proposta conclusiva di una amministrazione autonoma dei beni culturali e rimasero del tutto vane le sue solenni dichiarazioni di principio, 84, più 9 raccomandazioni di urgenza, che avrebbero dovuto valere (questo il mandato parlamentare alla Commissione) come indicazioni per organiche riforme. La dichiarazione XL si occupa di centri storici, e della loro tutela, sono speciali beni culturali ambientali, riconosciute “strutture insediative urbane che testimonino i caratteri di una viva cultura urbana” (e qualcuno ironizzò sulla viva cultura). Il Parlamento prese atto della relazione che accompagnava i voluminosi atti della complessa ricerca (utile ancor oggi per la ricca documentazione) e neppure la considerò degna di discussione.
Non erano quelli i tempi per una radicale riforma urbanistica, e bene lo intese, qualche anno dopo Sullo e ammaestrato dal suo insuccesso, il più politicamente avvertito ministro dei lavori pubblici Giacomo Mancini, che mise in cantiere una sapiente integrazione della non ingloriosa legge urbanistica, la1150 approvata nel 1942, in tempo di guerra. La ingegnosa integrazione (riconosciuto merito a un direttore generale di rango, era De lucia) fu la legge 765 del 1967, ricevuta e nota come ponte verso la moderna legge urbanistica dei migliori tempi avvenire, la legge che ancora attendiamo. Nella legge ponte prendono forma normativa i centri storici (e sono “parti del territorio interessate da agglomerati urbani che rivestono carattere storico artistico o di particolare pregio ambientale o da porzioni di essi comprese le aree circostanti” di analoghe caratteristiche). Il centro storico entra dunque nell’ordinamento giuridico come riconosciuta zona omogenea, la “zona A”, nel sistema di piano generale per zonizzazione, strategia di una razionale urbanistica con troppa disinvoltura oggi rifiutato (a quel rigido schema, si disse, è ribelle il complesso fenomeno urbano). E appunto come “zona A” affidato alla disciplina speciale di piano regolatore, obbligo dei Comuni definirne il perimetro. Per ogni zona il decreto interministeriale dell’anno dopo avrebbe dettato gli inderogabili limiti di densità edilizia, di altezza, distanza tra fabbricati, oltre ai rapporti massimi tra spazi privati di insediamento e spazi pubblici per relativi servizi. E i limiti di densità edilizia, altezza e distanza tra fabbricati che valgono per le zone “A” (articoli 7,8 e 9 del decreto 1444 del 1968) sono dati per le operazioni di risanamento conservativo ed altre trasformazioni conservative, nel proposito di adempiere a una essenziale istanza conservativa, ma sono tecnicamente funzionali alla costruzione del nuovo, pur se così contenuto. Questa legge 765 si era saggiamente preoccupata anche di rendere partecipi le istituzioni della tutela, le soprintendenze e il ministero, allora la speciale direzione belle arti del ministero dell’istruzione, all’esercizio delle funzioni urbanistiche (le soprintendenze consultate per la delimitazione degli ambiti urbani e al loro interno dei centri storici e per l’adozione dei piani particolareggiati, la speciale direzione del ministero della pubblica istruzione abilitata a proporre al ministro dei lavori pubblici che approva i piani regolatori comunali – siamo nel sistema preesistente alla attuazione dell’ordinamento regionale – “le modifiche riconosciute indispensabili per assicurare la tutela di paesaggio e di complessi storici monumentali e ambientali”. Fu una brevissima stagione, perché, attuato l’ordinamento regionale, dal 1972 furono con l’urbanistica trasferite alle regioni anche quelle attribuzioni esercitate dagli organi centrali e periferici (le soprintendenze) del ministero della pubblica istruzione (la partecipazione della istituzione della tutela) che sono rimaste assorbite e quindi in pratica dissolte nel governo regionale dell’urbanistica. Non si seppe intendere il senso di quella partecipazione, il necessario autonomo contributo delle istituzioni della cultura al governo del territorio e le regioni avrebbero dovuto attivarsi in proprio in quella distinta funzione (lo aveva preteso allora l’Istituto dei beni culturali dell’Emilia-Romagna, ma la giunta regionale non intese ragione). Ne risulta poi definitivamente sancito un rigido sistema binario per separate e incomunicabili attribuzioni. Alle Regioni è affidata con l’urbanistica la disciplina normativa dei centri storici secondo il modello della legge ponte e nel rispetto delle prescrizioni attuative dettate per le “zone A” dal decreto 1444 del 1968, principi fondamentali della materia, nel difetto di una apposita legge cornice. Tenuti i Comuni ad attuare quella disciplina attraverso i piani regolatori generali con i vincoli da osservare nelle zone a carattere storico, ambientale, paesistico (la 1187 del1968 riscrive l’art.7 della legge 1150 sul contenuto del piano regolatore generale, riprendendo la testuale formulazione della legge Sullo). Rimane indifferente a quei piani la tutela dei beni immobili, edifici e luoghi non edificati, di dichiarato interesse storico e artistico, esercitata dalle Soprintendenze.
Fu in generale serio l’impegno delle Regioni nell’esercizio della potestà legislativa per la tutela del territorio alla quale sono intitolate pressoché tutte le loro leggi urbanistiche nella fase costitutiva del nuovo ordinamento e prima fra tutte, si deve riconoscere, l’Emilia -Romagna con la esemplare legge 47 del 1978 che detta una rigorosa disciplina dei centri storici, ineccepibile la definizione del restauro per gli edifici di speciale qualità e generalmente prescritto il risanamento conservativo ai tessuti edilizi connettivi, attento alle differenziate caratteristiche tipologiche, esclusa la ristrutturazione edilizia e quella urbanistica, se non in funzione di un documentato ripristino degli assetti originari della morfologia urbana. Principi fondamentali di orientamento alla potestà legislativa delle regioni nella materia urbanistica (poi per aggiornamento lessicale governo del territorio) rimangono ancora e soltanto nella legge ponte e nelle prescrizioni attuative del decreto 1444, fino alla legge del fare del 2013, come tra un momento diremo.
Non si è voluto occupare dei centri storici, occasione mancata, il codice dei beni culturali (2004-2008), ambizione sbagliata di un ministro che voleva legare il suo nome a un codice, il codice Urbani appunto (meglio, io ne sono convinto, conservare l’asciutto testo unico del 1999). Che un nuovo codice sì dovesse occupare dei centri storici lo aveva chiesto inascoltata Italia Nostra e le fu risposto con uno sbadato emendamento infilato con la revisione del 2008, che include i centri e i nuclei storici in quella speciale categoria delle così definite bellezze di insieme ricevuta dalla legge 1477del 1939 (art.136, lettera c): “i complessi di cose immobili che compongono un caratteristico aspetto avente valore estetico e tradizionale” (nel lessico desueto di quegli anni lontani), quando siano specificamente riconosciuti come tali attraverso un assai complesso procedimento che fatica a giungere in porto. Ed è un emendamento in pratica per altro superfluo perché la prassi confortata dalla giurisprudenza già aveva scontato che potessero essere riconosciuti con i connotati di quella categoria di tutela paesaggistica anche singoli insediamenti urbani storici, molto limitati per altro i casi in concreto registrati (dovuti pressoché soltanto alla solerzia di un bravo soprintendente per l’Umbria). Ed è pur sempre una tutela paesaggistica che apprezza valori di immagine, figurativi, e non soddisfa la speciale istanza di integrale esauriente salvaguardia dei centri storici che non sono solo paesaggio. Forse non consapevole chi la introdusse (per rispondere a una sollecitazione di Italia Nostra chiamata in audizione), più incisiva è la previsione del codice nella lettera g) del comma 4 dell’art.10, che comprende tra i beni culturali, nuova tipologia, “le pubbliche piazze, vie, strade ed altri spazi aperti urbani di interesse storico o artistico” (parole testuali della proposta di Italia Nostra), tali obiettivamente per certo, cioè di interesse storico, se compresi nel centro storico come disegnato nello strumento urbanistico comunale, e si tratta – piazze, vie, strade – delle strutture portanti nella morfologia della città storica. Hanno stentato a registrare questa innovazione del 2008 le soprintendenze e ne sa qualcosa Italia Nostra di Piacenza che ha dovuto denunciare come distruzione di bene culturale l’avviata trasformazione di Piazza Cittadella, spazio di respiro della Rocca Viscontea e della Mole Farnesiana, nell’edificio di un parcheggio d’auto, due piani sotto terra e in superficie rampe di accesso e recesso, griglie di aerazione, edicola di passo pedonale, un’opera senza esitazione autorizzata dalla soprintendenza.
Quell’inserto nell’elenco del comma 4 dell’art.10 introduce pur sempre la tutela di singoli spazi urbani, essi soltanto riconosciuti beni culturali e indiretti sono gli effetti conservativi che si riverberano sull’insieme del tessuto urbano storico. Sicché io credo che nell’ostinato silenzio del Codice Urbani i centri storici in sé non abbiano titolo per essere compresi, come unitarie definite entità, nel Patrimonio culturale del suo articolo 2, non abbiano quindi la copertura dell’articolo 9 della costituzione. E infatti la Corte costituzionale si è ben guardata dal dichiarare la illegittimità (e in un recente procedimento ne avrebbe avuta la occasione) dell’art.2-bis del testo unico dell’edilizia inserito dall’art.30 della legge del fare e per la semplificazione amministrativa anche nell’edilizia (98/2013). Si tratta della disposizione, lo avevamo anticipato, che abilita le regioni a derogare per legge ai limiti inderogabili del decreto 1444 e quindi a quel nucleo delle prescrizioni dettate per la disciplina delle operazioni conservative, uniche ammesse (artt.7,8,9) entro la “zona A” (le sole disposizioni di principio per la pur debole tutela dei centri storici). Quando la Corte avrebbe per altro dovuto dichiarare la integrale illegittimità dell’art.2-bis (nel testo unico dell’edilizia, sotto-materia dell’urbanistica), perché nei limiti inderogabili del Decreto 1444 si esauriscono i principi fondamentali, in materia (governo del territorio) di legislazione concorrente, riserva irrinunciabile della legislazione dello Stato. Non sono fondamentali i principi derogabili e se la derogabilità è rimessa alle Regioni che possono diversamente esercitare quella discrezione, non solo è violata la regola costituzionale del riparto di attribuzioni legislative in materia di legislazione concorrente, ma pure è inciso il sovraordinato generale principio fondamentale di eguaglianza dell’art.3 costituzione. E il comma1-ter dello stesso art.2-bis (rammendi francamente grotteschi nello spartito normativo) ha poi abilitato nei centri storici gli interventi di demolizione e ricostruzione (anche con incentivi volumetrici per superamento di altezza e ampliamenti fuori sagoma) purché previsti, fragile garanzia formale di procedimento, nell’ambito di piani urbanistici di recupero e riqualificazione particolareggiati. Via aperta a superare anche la disciplina restrittiva della ristrutturazione edilizia come definita dall’art.3, lettera d) dello stesso testo unico. Tutte le Regioni si sono avvalse della facoltà di deroga ai limiti inderogabili del decreto 1444 del 1968 – con qualche preoccupazione applicativa le poche virtuose – e ai Comuni rimane dunque prescritta la delimitazione del centro storico in funzione non già di una speciale disciplina nel merito degli interventi ammissibili, ma della formale cautela del piano particolareggiato.
Sta infine avanzando l’onda minacciosa della rigenerazione urbana, la nuova parola d’ordine, in linea di astratto principio compatibile con i modi del risanamento conservativo, se non sia strategia indifferenziata per l’intero territorio urbanizzato. Già ne siamo avvertiti, nei giorni scorsi la apposita Commissione del Senato ha adottato il testo unificato di numerosi, e spesso tra loro irrimediabilmente contraddittori, disegni di legge con disposizioni in materia di rigenerazione urbana, dettate, si afferma, per il conseguimento della finalità europea di azzeramento del consumo di suolo. Come il paesaggio cede al perseguimento delle fonti di energia alternativa, così il centro storico cede all’azzeramento del consumo di suolo?
Non è priva di ragioni, mi confermo nella convinzione qui concludendo, la constatazione che ho messo in testa a questo mio discorso, ai centri storici è oggi negata ogni tutela. Ma ancor di più, debole la ragione per cui le regioni sono ancora tenute a riconoscerli nelle loro leggi.
Piacenza, 19 ottobre 2024.
Giovanni Losavio.