Il caso Sant’Agostino e il codice di Hammurabi

di MARIA PIA GUERMANDI

da Eddyburg 21 Novembre 2015

Un paio di settimane fa il Tar dell’Emilia Romagna ha dichiarato l’illegittimità del progetto – voluto innanzi tutto dalla locale Fondazione Cassa di Risparmio – di ‘riqualificazione’ del Sant’Agostino – l’ex ospedale modenese – attraverso la creazione di un “polo librario”. Topograficamente, il complesso si trova di fronte al Palazzo dei Musei, il settecentesco “Grande Albergo delle Arti”, la sede che dal 1889 accoglie la Galleria e la Biblioteca Estensi, entrambe istituzioni di primaria importanza per il patrimonio conservato.
Ma non solo: in quest’unico contenitore, grazie alla lungimiranza dei passati amministratori furono ospitati anche il Museo Civico, la Biblioteca Poletti, specializzata in storia dell’arte, l’archivio comunale, una gipsoteca, il lapidario e, fino a pochi anni fa, anche il museo del Risorgimento (ora sloggiato e imballato). Nel tempo, questo lucido disegno civico si è via via fatto più confuso, tanto che ampi spazi dello stesso enorme edificio sono stati destinati a funzioni del tutto diverse, fra cui soprattutto quelle ospedaliere, mentre, sul lato settentrionale della piazza, l’Ospedale Sant’Agostino, creato nel XVIII secolo dal Duca Francesco III, diveniva sempre più inadatto per le moderne esigenze di assistenza e cura.

A partire dalla metà degli anni ‘90 si costruì quindi il nuovo Ospedale Estense-Sant’Agostino, a Baggiovara. Operazione rivelatasi assai gravosa per le casse comunali e dell’Ausl al punto da costringere il Comune alla vendita del Palazzo del Sant’Agostino, ormai svuotato dalle funzioni di nosocomio. Comune e Azienda sanitaria, in sostanziale coincidenza di interessi politici e finanziari, invitarono caldamente la locale Fondazione bancaria ad acquisire il centralissimo complesso del Sant’Agostino di enorme valore sul piano architettonico e urbanistico.

Un buon affare, ma evidentemente non sufficiente per le strategie di visibilità della Fondazione da subito interessata al potenziale di immagine della dirimpettaia Biblioteca Estense con i suoi 500.000 volumi, fra i quali soprattutto 16.000 cinquecentine, incunaboli e codici miniati fra cui la famosissima Bibbia di Borso. Così, dal 2007, anno dell’acquisizione, è stato avviato un progetto di “riqualificazione” il cui obiettivo sarebbe stato il trasferimento dell’intero patrimonio librario dell’estense e della biblioteca Poletti nel Palazzo Sant’Agostino per la creazione di un nuovo “polo librario”. Non di ‘semplice’ trasloco si sarebbe trattato, bensì di una radicale trasformazione del carattere e delle funzioni delle biblioteche pubbliche, suddivise fra una sezione no-profit per la pubblica lettura e un polo “espositivo” dove poter ammirare – a pagamento – codici miniati ed “eccellenze” librarie e dotato, ça va sans dire, di adeguati servizi commerciali a supporto.

Naturalmente adattare un ex ospedale a biblioteca non è impresa semplice e all’uopo è stata chiamata l’immancabile archistar, figura totem che ha ormai assunto, in Italia, un carattere taumaturgico rispetto a qualsivoglia problema urbanistico. Lo studio di Gae Aulenti, su commissione della Fondazione, ha quindi elaborato un progetto che prevedeva la costruzione di due torri librarie di oltre 23 metri di altezza inserite nell’edificio settecentesco, il riempimento dei cortili con altri fabbricati, demolizioni e altre vistose manomissioni. In sintesi, lo stravolgimento di un edificio tutelato ope legis, sul quale sarebbero consentiti quindi solo interventi di restauro conservativo e filologico.

Che tale progetto fosse poi in contrasto con il piano regolatore vigente, è stata ritenuta quisquilia superabile con stratagemmi al limite della liceità (tavole del piano strutturale comunale con indebite varianti, misteriosamente apparse nel frattempo). Oltre ai problemi urbanistici – e legali – e a quelli di tutela architettonica, sono state superate con la stessa souplesse tutte le obiezioni relative alla tutela del patrimonio librario: le torri librarie sono ormai ovunque ritenute strumento pericoloso per l’integrità dei volumi; l’inadeguatezza degli spazi del Sant’Agostino avrebbe costretto a modifiche disastrose degli arredi storici, il semplice trasloco, con la distruzione del microclima, avrebbe messo a serio rischio il patrimonio librario nel suo insieme.

Di fronte alle ripetute denunce della gravità di un simile progetto, non solo per la salvaguardia di beni culturali preziosissimi, ma per lo stravolgimento radicale del concetto di fruizione che comportava, denunce condotte quasi in solitudine dalla sezione Italia Nostra di Modena, gli organi del Ministero, ad ogni livello dirigenziale, hanno trascurato qualsiasi criterio di verifica e di prudenza e, con una catena ripetuta di errori amministrativi, per tacer di quelli sostanziali sull’esercizio della tutela, hanno ripetutamente avallato le decisioni di Fondazione e Comune.

Il progetto è stato approvato da Comune, Mibact e Fondazione, il 13 novembre 2007, quando i rapporti di forza pubblico- privato furono plasticamente evidenziati al momento della firma dell’accordo di programma, siglato presso la sede della Fondazione, dove l’allora ministro Rutelli e l’allora Sindaco Pighi si recarono a rendere omaggio al dominus della partita, accettando persino – il Mibact – di pagare tutte le spese per il trasferimento del materiale librario da un edificio pubblico ad uno di proprietà privata. Cornuti e mazziati, ma si sa, la politica ha ragioni che la ragione (e la cultura) non conosce.

Nella sentenza dello scorso 6 novembre, il Tar non ha potuto che prendere atto dell’incredibile serie di irregolarità che viziavano il progetto, negando la validità del permesso di costruire e interrompendolo in radice.

In perfetto Zeitgeist, le reazioni di politici e amministratori (attuali, ex, post…), che si sono affannati a sminuire la portata della decisione, relegandola a cavillo burocratico utilizzato dai soliti conservatori, misoneisti a prescindere. La superficialità (eufemismo) con cui, anche in quest’occasione, i politici locali hanno interpretato il loro ruolo di amministratori della cosa e degli interessi pubblici ha trovato compiuta espressione nelle dichiarazioni – scritte – dell’Assessore all’urbanistica Anna Maria Vandelli che non necessitano di alcun commento: “le norme sono un pretesto, l’architettura [quella della Aulenti n.d.s.] ha regole altre da quelle che possono essere contenute in un piano…è la qualità del professionista che fa la differenza […] …credo che la maggior parte dei cittadini ritenga che la produzione e continua modifica delle norme siano fastidiosi impedimenti, occorrono meno regole e più autorevolezza demandata alla professionalità” (Su Facebook e “Prima Pagina”, 10 novembre 2015).

Immediate anche le reazioni indignate della stampa locale, contro il danno incommensurabile derivato allo “sviluppo” della città dalla perdita del segno dell’archistar, a sottolineare tristemente quale sia ormai l’unico fine cui sembra destinata la pianificazione urbanistica o ciò che ne rimane: il marketing territoriale.

Quest’ultimo, appare l’obiettivo esclusivo di amministratori, classe dirigente e media assortiti, incapaci di concepire anche una minimale strategia culturale. Ma ancor meno, basterebbe appellarsi all’evidenza del buon senso per comprendere come, senza alcun trasferimento, lo stesso Palazzo delle Arti, svuotato delle funzioni incongrue, potrebbe offrire tutti gli spazi necessari agli ampliamenti di cui archivi e biblioteche sempre necessitano compresi quelli utili a trasformare queste istituzioni che da troppo tempo galleggiano al limite della sopravvivenza, in veri centri di ricerca al servizio dei cittadini e degli studiosi.

La vicenda del Sant’Agostino ha un carattere esemplare rispetto alla situazione italiana per più di un aspetto. Ci parla innanzi tutto della confusione in cui si trovano i nostri amministratori, per i quali il patrimonio culturale è quasi solo un fardello oneroso e se non ha immediati riscontri sul piano turistico, diventa un problema di cui liberarsi o (s)vendendolo ai privati (come a Venezia, o Siena, o Torino) o privandolo dei mezzi di sussistenza (v. il caso del Castelvecchio di Verona).

Ci racconta del ruolo distorto che hanno assunto, ormai da molti anni, le Fondazioni bancarie, in particolare per quanto riguarda la gestione degli eventi e delle istituzioni culturali. Enti privati (anche se amministrano pur sempre un patrimonio della collettività…) che, soprattutto dallo scoppio della crisi economica, sono man mano diventati, in virtù delle disponibilità economiche, gli arbitri – talora assoluti – delle politiche culturali delle nostre città. Con risultati alterni, spesso discutibili, sempre “opachi” perché frutto di operazioni decise da non eletti e non vincolate alla trasparenza di un pubblico dibattito, anche se – come nel caso di Modena – interferiscono pesantemente sul patrimonio collettivo e se, come accade sempre più di frequente, i costi di gestione delle operazioni intraprese sono troppo spesso destinati, prima o poi, a riversarsi sulle casse pubbliche.

Il vuoto culturale indebitamente – dal punto di vista costituzionale – occupato dalle Fondazioni, non ha però solo una genesi economica. E’ l’inevitabile conseguenza della progressiva incapacità degli organismi pubblici – il Mibact prima degli altri – ad elaborare una seria politica culturale o anche solo ad esercitare i compiti di tutela loro assegnati, a difesa degli interessi dei cittadini italiani. Tutela che non significa “solo” vincolo passivo, ma, prima di tutto, la restituzione, in termini di accessibilità, comunicazione, fruizione, del patrimonio culturale alla collettività. Incapaci di riconoscere e quindi trasmettere le funzioni e il valore non meramente patrimoniale dei beni culturali, tali organismi – in particolare a livello dirigenziale – tradiscono quello che dovrebbe essere il loro ruolo di guida e coordinamento culturale finendo sempre più spesso preda delle sirene di un concetto di sviluppo provinciale e attardato e autorelegandosi alla funzione di “facilitatori” di politiche culturali assunte da altri.
Nel caso di Modena, il provincialismo del progetto dell’archistar risiedeva – ad esempio – in un concetto stravagante di uso del patrimonio librario, ottenuto con metodologie superate e pericolose (le torri librarie) e contrario ad ogni principio di sostenibilità gestionale. Principio ben presente, al contrario, nella controproposta, quella sì innovativa, che suggeriva di utilizzare le ingenti risorse (come abbiamo visto anche pubbliche) del progetto per un’operazione di digitalizzazione a largo raggio del patrimonio librario. In linea con quanto sta avvenendo in tutte le maggiori biblioteche e istituzioni pubbliche, dagli Stati Uniti all’Inghilterra, questo progetto avrebbe inserito Modena e i suoi tesori librari all’interno di un patrimonio universale, ottenendo al contempo un effetto di “marketing territoriale” di ben altro spessore culturale.

Ma la vicenda del Sant’Agostino ci racconta drammaticamente anche della mutazione etica della nostra classe politica che, dimentica delle più elementari regole istituzionali, arriva a definire esplicitamente le leggi come un fastidioso orpello. Siamo dunque arrivati alle estrema evoluzione dei “lacci e lacciuoli” di berlusconiana memoria, il cui esito naturale è la “semplificazione”, obiettivo guida di quest’ultima stagione governativa.

La gravità di tale fenomeno – di cui il Sant’Agostino è solo un esempio fra i tanti – non è solo per le conseguenze operative che è destinato a provocare (sul nostro paesaggio, sul patrimonio culturale, sui centri storici, sulla qualità urbana, dell’ambiente, dei servizi), ma costituisce un vulnus mortale allo stesso concetto di democrazia. Dal codice di Hammurabi in poi, uno dei cardini di questo concetto è rappresentato da un insieme di regole scritte, perfettibile all’infinito, ma uguale per tutti. Il rispetto del quale è l’unica garanzia contro la violenza e il sopruso del più forte sul più debole.

… e infine, per fortuna, il caso Sant’Agostino ci ribadisce che, anche se non sempre, esiste un giudice a Berlino.