Pubblichiamo la relazione tenuta a Torino il 28 ottobre scorso dal presidente della sezione modenese dell’associazione sui temi dell’“archeologia preventiva” al convegno “Archeologia in città” promosso da Italia Nostra.
Nuovo codice degli appalti e Soprintendenza unica per l’archeologia preventiva.
(A Modena l’archeologia preventiva aprì la porta al Novi Park, il non fortunato parcheggio-auto sotterraneo, contro l’ottocentesco ippodromo del Foro Boario, ma con il riscatto di un finto parco archeologico in superficie).
Nel recente Codice degli appalti (d. lgs. 18 aprile 2016, n. 50), e nel suo articolo 25, trova l’ultimo approdo normativo l’istituto della archeologia preventiva che è oggi l’impegno preminente, forse assorbente delle sue energie, della istituzione di tutela archeologica; la soprintendenza unica (dove la recente riforma della organizzazione della trama periferica del ministero dei beni culturali ha assemblato le già distinte soprintendenze di merito, da ultimo quella archeologica) è l’ufficio che esercita quella speciale funzione e quando l’archeologia preventiva cade in ambiti urbani deve essere integrata nel contesto per misurarsi con la concorrente esigenza di tutela unitaria e complessiva della città storica. E la soprintendenza unica si vuole capace di soddisfare questa istanza di integrazione e superare i non infrequenti conflitti che ci è occorso di registrare e anche qui a Modena.
Il sottosuolo della città storica, gli strati delle sue millenarie fondazioni, sono parte essenziale integrante di quella entità che unitariamente consideriamo, come “centro storico”, oggetto di tutela.
E’ constatazione obbiettiva che pressoché la totalità della attività di scavo archeologico nel nostro paese non è espressione di meditati progetti di studio secondo una programmazione generale fondata su criteri di ricerca storico – scientifica, misurata nei tempi e nei luoghi secondo le priorità dettate da intrinseche e autonome esigenze di conoscenza e tutela. E’ invece attività di emergenza che rincorre nel territorio, spesso affannosamente, gli interventi pubblici (e, entro certi limiti, privati) di trasformazione urbanistico – edilizia che incidono nel sottosuolo e inevitabilmente incontrano la sedimentazione della storia plurimillenaria dell’insediamento umano nel nostro paese. Una attività collaterale alla fitta rete delle opere pubbliche, dalle più minute (i sottoservizi urbani) alla realizzazione di infrastrutture e insediamenti produttivi strategici di interesse nazionale. Secondo un dato ufficiale ma non aggiornato perché risale al 2011, gli scavi di quella natura in Italia ammontano a circa sei – sette mila all’anno.
La esigenza di operare in prevenzione in funzione di una più efficace tutela archeologica non aveva trovato riconoscimento normativo prima dell’entrata in vigore del codice dei beni culturali (2004, con le consecutive revisioni del 2006 e del 2008).Il generale potere cautelare del soprintendente era limitato alla sospensione dei lavori attuati in contrasto con le esigenza della tutela anche su “cose”di interesse culturale non ancora riconosciuto, ma con onere di avviare entro trenta giorni il procedimento di dichiarazione. La esigenza di tutela attraverso più efficaci strumenti preventivi era stata affermata con determinazione dalla Convenzione europea per la protezione del patrimonio archeologico, sottoscritta anche dall’Italia a Malta – La Valletta il 16 gennaio 1992, che aveva raccolto la raccomandazione del Consiglio d’Europa per la “protezione e valorizzazione del patrimonio archeologico nel contesto della pianificazione urbana e rurale” e aveva impegnato le parti a promuovere i mezzi di archeologia preventiva con la prescrizione che nella previsione della spesa di “importanti lavori pubblici o privati” fosse assunta la totalità dei costi delle relative operazioni archeologiche necessarie” e fossero fatti figurare nei bilanci preventivi, “come accade per gli studi di impatto ambientale imposti dalla preoccupazione di protezione dell’ambiente, gli studi e le ricerche archeologiche preliminari, i documenti scientifici di sintesi”. Impegno a lungo disatteso dal nostro paese che dei ventotto stati originariamente partecipi della Convenzione è stato l’ultimo a sottoporla a ratifica con la legge 29 aprile 2015, n.57 (disegno di legge del Governo Letta 14 febbraio 2014), sorprendente ritardo di oltre 23 anni.
Può dirsi la prima misura di archeologia preventiva quella introdotta nel Codice dei beni culturali nel 2004 con il 4°comma dell’art.28 che attribuisce al Soprintendente il potere di richiedere l’esecuzione di saggi archeologici preventivi sulle aree di interesse archeologico presunto nelle quali ricada la realizzazione di opere pubbliche. Misura palesemente inadeguata perché le sole spese dei saggi sono poste a carico del committente, il potere del soprintendente è limitato alle opere pubbliche e nessuna informativa preventiva a lui è dovuta sicché la sua iniziativa è affidata alla casuale conoscenza che il suo ufficio abbia acquisito al riguardo.
Con il dichiarato proposito di dare applicazione alla previsione di quell’articolo del codice dei beni culturali l’anno dopo il parlamento ha invece provveduto ad introdurre una compiuta disciplina delle misure di archeologia preventiva e lo ha fatto con modalità singolari e anomale, caricandola cioè (intervento obliquo, opportunista si dovrebbe dire) sulla legge di conversione di un decreto legge che ha tutt’altro contenuto (la tutela del diritto d’autore), contro il principio che vuole limitata rigorosamente alla materia del decreto l’ammissibilità degli emendamenti al disegno di legge di conversione. Sono gli art. 2-ter (“verifica preventiva dell’interesse archeologico”), 2-quater (“procedura di verifica preventiva dell’interesse archeologico”) e 2-quinquies (“disposizioni finali in materia …”) infilati di sbieco nella legge 25 giugno 2005, n. 109 di conversione del decreto legge 26 aprile 2005,n.63. La relativa disciplina è testualmente ripresa un anno dopo con gli artt. 95 e 96 del Codice dei contratti pubblici (d. lgs. 12 aprile 2006, n. 163) e da ultimo, con non più di un paio di significative modifiche (su cui subito ritorneremo), nell’art.25 del recente Codice degli appalti (d. lgs. 18 aprile 2016, n.50, che ha abrogato il d.lgs. 163/2006).
Aveva suscitato allarme la promessa – minaccia dal Presidente del consiglio Renzi pubblicamente ripetuta nell’estate del 2014 (al Festival dell’Economia a Trento e poi a Napoli) “Mai più cantieri fermi per ritrovamenti archeologici”, ma l’istituto della archeologia preventiva come disciplinato allora dal codice dei contratti pubblici ha saputo resistere, se il per altro disastroso, il famigerato decreto legge “sblocca Italia” del consecutivo settembre (133/2014) convertito nel novembre (166/2014) si è limitato a ripetere (nell’art. 25, comma 4) la disposizione dettata in quel codice e cioè la prescrizione di linee guida finalizzate ad assicurare speditezza, efficienza ed efficacia alla procedura di verifica preventiva dell’interesse archeologico, ponendo al riguardo il termine, vanamente trascorso, del 31 dicembre 2014.
Si è detto di due modifiche introdotte con l’art.25 del recente Codice degli appalti: il drastico taglio dei tempi dati al Soprintendente per determinarsi (avendo ricevuto dalla stazione appaltante il progetto preliminare dell’intervento con la relativa documentazione) sulla “esistenza di un interesse archeologico delle aree oggetto di progettazione” e sulla motivata richiesta di sottoporre l’intervento alla procedura di verifica preventiva: non più novanta giorni, ma trenta e, solo per i “progetti di grandi opere infrastrutturali o a rete”, sessanta. Rimasta inadempiuta la prescrizione di linee guida e non più riproposta, il comma 13 dell’art. 25 rimette a un decreto del presidente del consiglio su proposta del ministro beni e attività culturali e turismo, di concerto con il ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione e il ministro delle infrastrutture e dei trasporti, da emanare entro novanta giorni (dunque già ampiamente scaduto), di individuare “procedimenti semplificati con termini certi che garantiscano la tutela del patrimonio archeologico, tenendo conto dell’interesse pubblico sotteso alla realizzazione dell’opera”. Difficile immaginare una ulteriore riduzione dei tempi se non con il sacrificio della tutela a quell’interesse pubblico, perciò divenuto preminente.
Abbiamo riconosciuto che la disciplina del procedimento di verifica preventiva già nella stesura del testo introdotto come emendamento aggiuntivo alla legge di conversione del decreto legge sul diritto d’autore è orientata a efficienza e adeguatezza al fine della esauriente conoscenza per indagine analitica del luogo. La indagine archeologica come elemento essenziale della progettazione dell’opera, a carico operativamente e finanziariamente dell’impresa committente dell’opera (un suo costo da considerare in bilancio), affidata a competenze professionali qualificate, selezionate e garantite dai dipartimenti archeologici delle università e verificate attraverso la inclusione in apposito elenco presso il ministero. L’intera procedura condotta sotto la guida penetrante della soprintendenza. Rimane per altro la esclusione delle opere private dalla verifica preventiva dell’interesse archeologico coinvolto, palese inadempimento di un essenziale impegno assunto con la convenzione di Malta, esclusione per certo non irrilevante nell’economia della tutela archeologica (pensiamo all’opera di un “ipermercato”).
Ma quel che più interessa infine è la disciplina della fase conclusiva della procedura (il comma 9 dell’art. 25) che con la relazione archeologica definitiva e le determinazioni di tutela dettate dal soprintendente, va oltre l’esercizio della strumentale verifica preventiva e definisce i modi di realizzazione del suo fine. Rispetto ai risultati della verifica sono tre le distinte ipotesi considerate. La prima alla lettera a) registra l’esito negativo della procedura, accertata l’insussistenza dell’interesse archeologico dell’area interessata e dunque “lo scavo stratigrafico esaurisce direttamente l’esigenza di tutela”; la terza alla lettera c) contempla i complessi strutturali rinvenuti e non amovibili per i quali la conservazione non può essere assicurata che con l’integrale mantenimento in sito. L’espressione è reticente perché non può dirsi così esaurito l’esercizio della tutela e lascia senza risposta il quesito ineludibile se la conservazione contestualizzata del complesso strutturale unitario si opponga alla realizzazione dell’opera e dunque rimane aperto un ambito di discrezionalità al limite dell’arbitrio, esteso perfino ad assumere la struttura inamovibile come arredo prestigioso dell’opera (fosse pure una pubblica autorimessa), ostensibile agli utenti dello speciale servizio, una ingegnosa, ma mortificante, modalità di pubblica fruizione. Ancora più problematica la ipotesi della lettera b) anche perché enunciata con espressione sintatticamente contorta di non immediata comprensione (per l’improprio inserto di una relativa dipendente), agevolata tuttavia per esclusione rispetto alle altre due. Dunque si tratta per certo di un sito di verificato interesse archeologico, il cui contesto è privo però del carattere di complesso strutturale unitario e si presenta “con scarso livello di conservazione”, sicché si apre l’alternativa del “reinterro” (dopo attuata, si deve intendere, una scrupolosa documentazione di giacitura di ogni anche mal conservato reperto) o dello “smontaggio e rimontaggio e musealizzazione in altra sede rispetto a quella di rinvenimento”. Insomma il sito è stato liberato dalle ingombranti presenze archeologiche (e così si deve intendere ha perduto l’interesse archeologico che aveva giustificato con i reperti rimovibili l’esercizio della verifica), bonificato, si direbbe, attraverso il trattamento che si addice ai terreni inquinati da malefiche sostanze; e, così ripulito, è pronto per qualsiasi impiego, nessun ostacolo allora alla invasione della progettata opera pubblica. L’archeologia preventiva sollecita battistrada di ogni indiscriminato e dirompente intervento nel sottosuolo del paese.
E’ quanto è avvenuto a Milano (pagina vergognosa della tutela istituzionale) nella piazza che fiancheggia la Basilica di Sant’Ambrogio, che è stata convertita a tetto di un pubblico parcheggio di autovetture, ma copriva il Coemeterium ad martyres, la matrice della stessa basilica fondata sulla traslazione, da lì, delle spoglie dei santi martiri. Un’area sepolcrale altomedievale (ma impiantata su una sottostante struttura di viabilità romana ancora rinvenibile in tracce) non segnata da monumenti funerari, che copre spoglie direttamente inumate e prive di rilevanti arredi, sicché, rimossi quei poveri resti, il sito, agevolmente liberato da ogni segno lasciato dall’insediamento urbano in oltre duemila anni di storia, si è prestato a ricevere l’autorimessa multipiano. Analoga sorte a Modena dell’Ippodromo ottocentesco disegnato in asse con il ducale Foro Boario sull’area della Piazza d’armi della Cittadella estense, trasformato nel coperchio mal dissimulato dell’autoparcheggio sotterraneo, dove tra griglie di aerazione è stato infine insediato un finto parco archeologico che esibisce un tratto di basolato della strada romana (rinvenuta integra a cinque – sei metri sotto nello sviluppo di oltre cento metri), fiancheggiata dalle copie delle stele originali riparate nel museo; e le strutture di una vasca ricostruite in superficie con proiezione verticale della originale giacitura, mentre le anfore di scarico che conteneva sono esibite nella vetrina aperta lungo una rampa di uscita dal parcheggio. Se questa è tutela archeologica.
E poiché parliamo di “archeologia in città” dobbiamo affrontare l’incrocio con la istanza di tutela dell’insediamento urbano come la storia ce lo ha consegnato e così noi oggi viviamo, essendo concettualmente inconcepibile il conflitto tra archeologia e consolidati assetti della città. Come abbiamo dovuto constatare invece ad Aosta, dove un finanziamento europeo (lì la tutela come si sa è regionale) è stato impiegato per restituire, con lo scavo di alcuni metri, l’appoggio originario alla monumentale Porta Pretoria che la crescita della città aveva mirabilmente assimilato e mantenuto viva nel principale asse viario urbano sulla stessa linea dell’Arco di Augusto, pur se stretta tra strutture edilizie venute su nei secoli in aderenza. Il rovello di scoprire l’integrale struttura della Porta, il suo originario appoggio, ha interrotto la continuità della via storica che la trapassava, l’ha artificialmente isolata dal vivo contesto urbano come estraneo antico monumento; il vuoto dello scavo è superato da tre passerelle pedonali stridenti con le antiche strutture, le due laterali per servire le soglie degli edifici rimaste sospese su quel vuoto, mentre non ha soluzione la resa del fondo che nulla aggiunge alla conoscenza del luogo e difficilmente sfugge al destino di sporcizia. Insomma l’archeologia per offendere la storica città di Aosta. E a Mantova a interrompere la continuità di superficie della Piazza Sordello e la prospettiva verso il Palazzo Ducale è cresciuto, per dichiarata tutela archeologica, l’ingombro di una vasta struttura nelle intenzioni trasparente per la copertura- protezione del pavimento musivo di una villa romana casualmente rinvenuto qualche metro sotto nei lavori di revisione dei sottoservizi. Artificiale emersione di Mantua nella (e contro la) Mantova storica che da molti secoli l’aveva sepolta.
E se poi la intenzione di nuove opere si indirizza sulle piazze dei centri storici e sugli altri luoghi rimasti inedificati nella città di antica fondazione, deve valere la pregiudiziale di autonoma tutela che il codice dei beni culturali ha introdotto riconoscendo dignità di bene culturale alle “pubbliche piazze, vie, strade e altri spazi aperti urbani di interesse storico e artistico” (art.10, comma 4, lettera g) e l’interesse di storia urbana è insito in quei luoghi compresi nei (anche) formalmente riconosciuti centri storici. Vale perciò in questi ambiti la prima istanza della tutela, quella conservativa della stessa integrità fisica del bene, che si oppone all’intervento irreparabilmente distruttivo come lo scavo che cancella le fondazioni storiche dell’insediamento urbano, gli strati sui quali si è venuta costituendo nel tempo la città di oggi, qui non potendo darsi in linea di principio che la disinteressata ricerca archeologica a fine di conoscenza e studio.
A un approccio unitario sembra dunque in linea di principio adeguata la nuova struttura di tutela che la recente riorganizzazione degli organi periferici del ministero ha infine individuato nella soprintendenza unica istituita per passi progressivi, essendo stata da ultimo annessa la soprintendenza archeologica alla soprintendenza belle arti e paesaggio che aveva accorpato quelle ai beni storico – artistici e architettonici. Non è qui la sede per riprendere le ragioni da Italia Nostra opposte a quella complessiva riforma, specie nel punto in cui ha scorporato i musei dalle soprintendenze (si ricordi, nacquero come soprintendenze alle gallerie), a taluni i più illustri riconoscendo autonomia di gestione e direzione affidata all’esterno dell’amministrazione per concorso internazionale e accorpando gli altri musei, considerati minori, in artificiosi e burocratici poli museali regionali, mentre la scomposizione delle soprintendenze archeologiche costituite da sempre (non a caso) e strutturalmente consolidate per ampie aree regionali, per essere le relative competenze distribuite nelle più numerose soprintendenze unitarie, ha comportato problemi di disfunzione quanto alla sorte e all’impiego degli strumenti di documentazione e studio (depositi, archivi e biblioteche) non scomponibili, costituiti e radicati stabilmente nel tempo nella autonoma struttura della soprintendenza archeologica.
Ma da questa riforma (espressamente motivata dal proposito vano di risparmio di spesa), intesa (invece) come espressione del principio di unitaria e integrata tutela, si sappia trarre il beneficio del superamento di approcci separati alle esigenze conservative poste dal medesimo luogo e dal medesimo bene. Siamo tuttavia consapevoli che la effettività della tutela è condizionata non tanto dalla formale articolazione delle competenze amministrative attivate al riguardo, quanto piuttosto da sostanziali convincimenti di cultura della tutela. A Milano come a Modena, benché separate e non comunicanti, le soprintendenze distintamente preposte ai beni archeologici e ai beni architettonici obbiettivamente convennero nel convincimento che la trasformazione in parcheggio d’auto multipiano ipogeo della Piazza Sant’Ambrogio sopra il Coemeterium ad martyres e dell’Ippodromo ottocentesco nella Piazza d’armi della Cittadella estense sopra il suburbio a nord-ovest dell’insediamento urbano di Mutina, fosse in tutto conforme all’imperativo di tutela. E il fungo di Piazza Sordello si deve all’opera concorde di un architetto e di un archeologo delle rispettive soprintendenze.
Giovanni Losavio.